66 volte 25 aprile: ricordi non miei – ovvero – La forza dello storytelling e del passaparola
Oggi è il 66° anniversario della Liberazione.
I miei nonni vorrebbero che ci pensassi su almeno un minuto, come spesso facevo con loro da bambina.
Il 25 aprile del 1945 mia nonna materna aveva appena compiuto 14 anni e mio nonno di lì a pochi giorni ne avrebbe avuti 21. Loro non sono più qui per poter raccontare cosa è successo quel giorno e la mia memoria dei racconti d’infanzia è piuttosto sbiadita. Non ricordo più se già si conoscessero, non ricordo più esattamente in quale paesetto della Calabria fossero in quel momento, sono passati sicuramente più di 15 anni da quando non glielo sento più raccontare, ma ho bene impressa nella memoria la luce nei loro occhi mentre parlavano della fine della guerra e del fascismo.
Loro in quegli anni vivenano in Calabria, dunque i ricordi di gaudio sicuramente non riguardavano il 25 aprile del 1945, ma giornate imprecisate di settembre di due anni prima [n.d.a. la Calabria è stata invasa all’inizio di settembre del 1943], comunque credo che poco importi ai fini di questo post (come poco importava a loro quando nel giorno della liberazione ricordavano la “parte” a cui avevano assistito), qui mi interessa condividere l’atmosfera che erano capaci di ricreare nei loro racconti.
Mia nonna, complice la sua tenera età all’epoca, parlava del periodo Fascista come di un gioco poco esaltante: i vestiti lugubri che era costretta a indossare, le continue esercitazioni e le stancanti parate, le sirene [dei bombardamenti] sentite le quali bisognava “giocare a nasconderella” al buio in luoghi paurosi… il corso di ricamo e cucito tenuto da sua madre era l’unica cosa che la divertiva [n.d.a. le ho visto fare cose con ago e filo che difficilmente si possono immaginare, impossibili da descrivere!]…
E poi arrivarono gli Americani con “le scatole magiche”: scatole di latta che, a quanto pare, erano piene di ogni dolciume e leccornia che un bambino potesse desiderare, cioccolato compreso. E si vantava:
“Io, figlia di ferroviere, di quelle scatole ne ho avute più di tutti perché a papà ne regalavano tante ed io ero la sua principessa!”.
I ricordi di mio nonno, invece, erano più dettagliati quanto più controversi e più difficili da farsi raccontare. Il suo ricordo preferito era quello riguardante una sua vittoria in una gara di atletica per cui vinse una medaglia e il tanto bramato “fischietto da capoclasse”: che luccichìo nei suoi occhi quando riportava alla mente quel fischietto…
Il suo ricordo più brutto era la fame. Aveva sempre fame anche a decenni di distanza. Fame di tutto, senza limiti.
La memoria più controversa, dolorosa quanto felice, invece, era legata al fronte: unico sostegno familiare [n.d.a. suo padre era stato costretto a fuggire in somalia perché contrario al regime] aveva scampato il fronte sino all’età di 18 anni, poi lo chiamarono alle armi, lo addestrarono per qualche mese tenendolo in zone “poco movimentate”, dunque lo spedirono ai confini del Friuli [n.d.a. potrei sbagliarmi sulla regione, comunque sicuramente in qualche tratto di confine del nord Italia]. Era solito dire:
“Rimasi in una buca per qualche giorno, non so più se 3 o qualcuno in più. Avevo freddo e i piedi gelati. Poi dissero che la guerra era finita, ma non ci riportarono a casa. Dal nord più estremo sono tornato a casa [n.d.a. in Calabria] a piedi. Se ci penso i piedi mi fanno ancora male… mi hanno fatto male per settimane, ma sono tornato!”.
Dopo anni, decenni, entrambi i miei nonni non riuscivano comunque a parlare male di Mussolini, non erano abituati a farlo, appena si accorgevano che stavano muovendogli delle critiche “troppo severe” assumevano uno sguardo circospetto e iniziavano a sottolineare “le opere buone” del regime (bonifiche, treni in orario ecc ecc), ma tanto si capiva cosa pesavano realmente… anche perché l’aneddoto che raccontavano sempre per primo e più spesso della guerra e del regime era quello de “LA SFILATA”, la festa, la fine di tutto, gli alleati in trionfo, le risa e le grida.
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