Comunicare “Green” e il “Green washing”
Proprio nel tentativo di creare per la propria organizzazione la Whole Brand Reputation descritta da Diego Masi in Go Green, sempre più spesso capita di vedere campagne pubblicitarie che puntano sul lato “verde” della marca che promuovono.
L’ESEMPIO DI SMART
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L’ESEMPIO DI BANK COOP
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COS’È IL GREEN WASHING?
Nonostante sia ancomiabile il fatto che, queste come tante altre organizzazioni, si siano poste il problema dell’eco-compatibilità dei propri prodotti/servizi, la domanda che il consumatore (oramai prosumer) dovrebbe porsi ogni volta è: quanto l’azienda che si sta promuovendo è realmente “green” e quanto invece ciò che mostra sui media è solo una questione di immagine, ovvero quanto l’atteggiamento attento al proprio ecosistema è radicato e non superficialmente “sbandierato”?
In sintesi: il brand che si comunica come “verde”, lo è realmente o sta facendo “green washing”?
“Il termine green washing, coniato nei primi anni ’90 da Greenpeace per descrivere ‘cynical, superficial, public relations marketing’, designa un’appropriazione indebita di virtù ambientaliste da parte di una società, un’impresa, un governo, per farsi un’immagine verde. […]
Esiste una lista dei sei segni che possono aiutare a capire quando ci troviamo di fronte a un tentativo di green washing:
- Peccato di nascosto trade-off, quando si dichiara un unico elemento verde presente per affermare che un prodotto è green
- Peccato di mancanza di prove, quando non ci sono dati per convalidare l’affermazione
- Peccato di vaghezza, con affermazioni vaghe e non chiare
- Peccato di irrilevanza, con affermazioni che spostano l’attenzione su elementi irrilevanti e non verdi
- Peccato del “minore dei mali”, affermazioni che distolgono da considerazioni sull’impatto ambientale del prodotto
- Peccato di falsità, …
[fonte: intervista a Diego Masi su Social Trends n° 109]
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